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Collana/Poesia/20

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Titolo: Le pallide dita della luna

Autore Lidia Guerrieri

 

Formato: 15x21 cm

brossura

80 pagine

 

Copertina:

Studio Maurizio Vetri

Illustrazione di copertina:

Studio Maurizio Vetri

 

 

Prima edizione: Febbraio 2019

 

ISBN 978-88-99782-40-5

 

 

Prezzo di copertina: Euro 12,00

 

Prefazione

di Nazario Pardini

 

La voce del mare nella melodia del verso

 

La mia poesia è tutta nei tuoi occhi, è così che inizia l’opera, con una poesia che l’Autrice dedica alla figlia: un sentimento tanto potente che non sono sufficienti le parole a esternarlo, occorrono immagini naturali per dare colore, forza, ed esplosione allo stato d’animo: l’edera, il corimbo, il lattice, la luna...

 

 

A  Romina

 

La mia poesia è tutta nei tuoi occhi

d’edera e di corimbo,

sulla tua pelle

che a lattice di luna eguaglia il lume,

piccola donna mia  che tutto sai del mondo

e di cui il mondo non conosce il nome!

(...)

 

 

C’è il bisogno di ricorrere a configurazioni paniche, anche nel resto della plaquette, per concretizzare le vicissitudini; un antroporfismo  delicato e gentile che contribuisce non poco alla organicità dell’insieme: Marina, il mare, le viuzze, il Maestrale o il Libeccio che si fanno simboli di una storia in un dire di classica misura che tanto risente di studi umanistici e di ambiti culturali letterari, ma soprattutto di un animo zeppo di cose da narrare:

 

 

La giuncaia che fiuta il Maestrale,

l’onda che passa al vaglio sassi e rena,

e le pallide dita della luna

a frugare nel vento siderale

non sono poi lontani

dal falco  che scandaglia i fiumi azzurri

sopra le creste d’oro. Nè è diverso

colui che scruta l’anima o  che annaspa

tra le curve insondabili del cielo

dal verme che da secoli rovista

testardo i sottoscala della terra.

 

Sì, si respira aria di salmastro, odore di pinolo, e si ode lo sciacquio della bàttima. La Guerrieri è tutta qui, con la sua storia, con  la sua terra, con cui torna sempre a dare carburante al serbatoio del linguismo, del patema esistenziale.

Una silloge, questa di Lidia, che abbraccia con melanconici abbrivi le fragranze della vita; e lo fa scolpendo coi versi la materia da forgiare. Sì, la vita con tutte le peripezie, con tutti i dilemmi, con tutte le aspirazioni spesso tradite dal volgere della sorte. Ma quello che da subito risalta agli occhi e alla mente è il verso: un’architettura di intrecci verbali, di iuncturae simboliche assegnate alla grazia della melodia. E tutto si fa musica, euritmica sonorità, romanza che prende e non molla; che arriva e convince; che allunga il tiro a sponde di isole lontane, verso le quali la Nostra aspira, e a cui tenta di approdare in cerca di mondi puliti dove i tramonti sfiorano coi loro colori gemme pure e vergini, dove poter ri-vivere con volti amati e troppo presto scomparsi, e dove i sogni, le presenze e gli affetti non vengano scalfiti dalle mani del tempo. Un’isola, insomma, dove la vita è vita, l’amore è amore, e tutto si svolge senza trafitte dolorose, senza provare solitudini di un esistenzialismo esiziale:

 

(...)

Capita allora che ti accorga come

sia il cuore dell’Inverno solo un buco

grigio di luce, e freddo d’inquietudine,

e che, mentre il dolore graffia il muro,

ti chieda se potessi un poco entrare

ed asciugare  al fuoco questi panni

intrisi di rimpianti e solitudine.

 

Rimpianti, ritorni, rievocazioni... in versi nutriti di sinestetici accostamenti o di metaforici allunghi che tanto danno al cuore del canto.

Senz’altro la Nostra non appartiene a quella corrente di avventure sperimentali che tradisce il vero spirito della poesia; non appartiene di certo a  quella cerchia che ha contribuito con positure prosastiche a stravolgere l’anima del poièin. Direi piuttosto il suo “poema” un racconto interiore, una confessione che tanto si avvicina all’empito di un realismo lirico. E il tutto si fa dolce e fluente, amabile e nostalgico, vero e concreto come lo è la vita nel suo corso di andate e ritorni. Spesso c’è il tentativo di aggrapparsi a memorie di antiche primavere:

 

(...)

E sono  insieme, voci di bambini;

mi vedo con le trecce in mezzo a loro:

risa di cerchi e giochi,

e laggiù un echeggiare di campane:

“Io sono il tempo,

giro la ruota, tutto cambia intorno!

 E sempre vado avanti,

io non ritorno!

Mai più ritorno!”

E come in un ninnare di rintocchi,

ecco che le distinguo

e riconosco;

voci lontane, sperse nel profondo,

tornano a sussurrare dolci e piane

le parole sfogliate di anno in anno,

si smorzano ed in esse mi confondo;

ronzio che mi accompagna e che si perde

sulla porta del sonno...,

 

o il bisogno di ripescare volti e luoghi che hanno segnato tappe fondamentali nel percorso dell’esistere:

 

L’avete vista la ragazza bionda,

odorosa di mare e di bucato

per le vie alla Marina?

(...)

Va a spolverare tombe, quasi all’alba.

e poi di casa in casa,

fringuello che sfaccenda gorgheggiando

e dall’aurora torna al nido a sera.

Non parrebbe, ma a casa ha una bambina

che ha freddo ed ordinate vesti smesse,

oro di nonne e  baci,

vuoti nel cuore, ma la bocca piena.

L’avete vista, dite, la mia mamma?

Io la ricordo appena!

 

Versi che ti prendono e non ti  mollano; che dicono di dolore e sottrazioni; di saudade e melanconiche intrusioni per ricordi che tornano vivi a stuzzicare l’anima:

 

(...)

e camminai fra genti, e mendicante

chiesi pietà su quelle stesse vie

che con violenza avevo insanguinato.

 

Io, pensiero divino, io progetto

che ancora deve compiersi.

 

 È lì che la Guerrieri soffre e si fa triste per una  clessidra che ha fagocitato i momenti  più caldi dell’esistere, reificando un’inquietudine che attraversa come filo conduttore il sottofondo dell’opera, senza, comunque, volgere la rotta a un sentimentalismo mellifluo e decadente, ma mantenendola dritta verso la robustezza del dettato lirico. È la parola, il verbo, la spontaneità, a volte vulcanica, a fare da padrona negli intrecci verbali, in quelli rinvigoriti dal mare, dai venti o dai pini dell’amata Marina. Soprattutto quando si dà all’anima la possibilità di girare libera fra gli anfratti dei suoi luoghi, fra gli angoli più segreti della sua terra, fra le cospirazioni emotive dei suoi dintorni; è essa che rincasando dalle perlustrazioni si porta dietro immagini di onde verdeggianti, di case umide e fredde, solitarie, di piogge invernali, di autunni velati di tristezza. Sono lì, in quelle occasioni, i frammenti di un essere tutto vòlto a cristallizzare i suoi abbrivi. Se poesia significa sentimento, immagine, memoria, e parola; se significa un mix di tutto questo, con la poesia della Guerrieri ci troviamo davanti a pagine di vera intuizione lirica; di vero abbandono estetico. D’altronde non era E. A. Poe a definirenel saggio postumo Il principio poetico “la poesia “creazione ritmica della bellezza”, convinto che “il sentimento poetico si ottiene nell’unione tra poesia e musica, giacché nella musica, forse, l’anima raggiunge quasi interamente il grande fine per il quale, se ispirata da un sentimento poetico, essa lotta… per raggiungere la creazione della Bellezza Suprema?”

Quello che Lidia ottiene con uno spartito di settenari, doppi settenari, accessori di effetto contrattivo o estensivo, ipertrofie e ipotrofie formali, interpunzioni a centro verso per emistichi: il tutto in funzione di endecasillabi che risuonano come getti di corrente in cascate di musicalità.

Finché il cerchio si chiude con un inno all’amore; a quell’amore verso la figlia con cui l’Autrice aveva dato il via al suo racconto; e lo fa con una oracolare visione di forte impatto emotivo:

 

 

 

(...)

E poi che sarà colma ogni tua luna

e non avrai rifugio per accogliermi,

cercami più lontano, vieni, trovami !

Ti verrò incontro per deserti e rovi;

tu segui solo il filo del mio amore,

di là dai fiumi inutili del dopo,

dai folgoranti eserciti di Dio

fino a che non mi trovi, bimba mia!

non mi lasciare nell’eterno sola

e non mi dire,

non mi dire addio.

 

Nazario Pardini

 

 

L'Autore

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Sono nata il 10 Dicembre 1946 sul mare, nel quartiere antico della città da una famiglia con pochi mezzi, ho frequentato il Ginnasio e lì, grazie ad una borsa di studio triennale che mi vide prima nella Provincia di Livorno per un tema sulla morale nel Manzoni, ebbi modo di studiare fino alla maturità classica. Successivamente mi sono laureata in Lettere all’Università di Pisa nel 1972 con una tesi sperimentale su “L’ attività estrattiva del Massetano nei suoi riflessi antropogeografici “ che sapeva più di Geologia che di Lettere, e che ho poi ridotto a trenta pagine su richiesta del Relatore, Prof. A. Mori, dato che gli ultimi studi su queste miniere risalivano al lontano 1800. Infatti non esistevano documenti a cui potessi attingere per i tempi più moderni e nella stesura fui aiutata da un ispettore che ci lavorava e che mi guidò passo passo direttamente al Corpo delle Miniere di Grosseto dove andai all’occasione per alcuni mesi.

Ho insegnato Lettere per oltre trent’anni ed in pensione ho “scoperto” la poesia, ma come hobby.

Non mi considero un poeta, mi definisco un costruttore di versi , niente di più. Non partecipo a Concorsi meno che sporadicamente.

Tre anni fa circa ho aperto un gruppo su fb “Le Pleiadi” in cui raccolgo poeti che amano scrivere in metrica sia classica che barbara. Lo scopo è di stare con amici per scambiarci informazioni in questo campo che è di nostro comune interesse.

 

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